

a Cura di Salvatore La Vecchia
Presentazione del volume Alla ricerca dell’Isola che non c’è, a cura di Salvatore La Vecchia, presso la Biblioteca comunale di Villa di Chiavenna, il 2 maggio 2024
Per parlare di un artista come Ferruccio Gini e della sua arte non è sufficiente parlare solo di lui e della sua arte.
Perché un artista – e più in generale qualsiasi persona – quanto più ricco, complesso e interessante è, tanto più sfugge a un racconto esclusivo di se stesso.
Questo perché nessuno è solo se stesso, nessuno vive in un vuoto pneumatico, ognuno di noi è in una rete di relazioni e ogni racconto è un intreccio di trame diverse fatto di persone, di luoghi, di linguaggi, di conoscenze, di saperi, di esperienze, di scambi, di reciproche influenze.
È necessario dunque, per coglierne gli aspetti profondi, provare ad analizzare, senza la pretesa di essere esaustivi, almeno una parte di quell’intreccio di relazioni che è alla base della vasta produzione artistica di Ferruccio Gini.
Il racconto della sua arte inevitabilmente ha a che fare con la sua vita: con il suo essere uomo di mare e di montagna, cittadino di Villa di Chiavenna e del resto del mondo verso cui si indirizza la sua arte e in qualche modo con il suo essere ancora cittadino di quella parte del Piemonte, il Canavese, dove ha conosciuto sua moglie Lidia e ha avuto sua figlia Katia.
Lì strinse, negli anni Sessanta, amicizia con un interessante artista locale, Miro Gianola, deceduto da circa un anno, e che grazie a Ferruccio è presente a Villa di Chiavenna, nella Chiesa parrocchiale di San Sebastiano, con una quindicina di tele dedicate alla Via Crucis. Un’opera questa che gli fu commissionata proprio da Ferruccio con l’intento di donarla alla comunità di Villa in occasione del suo 50° anno di matrimonio.
Ferruccio non si limitò a commissionare l’opera: intervenne direttamente nella sua elaborazione, non con il pennello – cosa che non avrebbe potuto fare, se non altro per l’assoluta diversità dei linguaggi artistici – ma con la sua sensibilità civica ed etica, suggerendo all’amico Miro di arricchire il racconto della Via Crucis con riferimenti a drammatici eventi storici come è stato lo sterminio degli ebrei effettuato nei famigerati campi nazisti (Tela della VIII Stazione) o attualizzarlo con eventi più o meno recenti come: l’attacco alle Torri gemelle (Tela della V Stazione], la strage del Bataclan (Tela della VII Stazione), l’assassinio di suor Maria Laura Mainetti (Tela della XII Stazione) e altro ancora.
Sempre nel Canavese, Ferruccio per motivi di lavoro entrò in contatto con l’ambiente dell’Olivetti quando essa era ancora, anche, un originale luogo di cultura. E fu proprio respirando l’aria di quel clima, ricco di stimoli culturali e artistici, che Ferruccio decise di mettere mano ai pennelli e di interpretare a modo suo le forme più interessanti dell’arte contemporanea, entrando in una trama di rapporti che inevitabilmente è anche la trama delle sue tele, della sua arte, con suggestioni che venivano dall’arte e dagli artisti con cui direttamente o indirettamente entrò in rapporto, ma anche da altre fonti, dalle sue letture, dalle proprie esperienze di vita o dalle tragedie che hanno segnato la storia, com’è il caso di uno dei suoi primi dipinti, presente nel catalogo, che ha come titolo una sola, significativa, inequivocabile parola: Hiroshima.
Quest’opera fu realizzata il 6 agosto 1965, a venti anni esatti dalla follia atomica americana che distrusse Hiroshima e qualche giorno dopo Nagasaki travolgendo, solo nell’immediato, qualcosa come 160.000 vittime, lasciando di tante persone solo delle ombre sul lastricato delle strade. Ombre che Ferruccio, con la sua sensibilità e con l’emozione di quel ricordo, ha rappresentato in quel quadro nel quale sembra di sentire le parole di un sopravvissuto riportate, tra l’altro, in un vecchio numero del Corriere dell’Unesco:
«… Improvvisamente, nel cielo… vidi una massa d’aria… Ebbi appena il tempo di gridare “Una tromba” che già un vento terribile ci colpì… cespugli e alberi furono proiettati in aria… ricaddero come saette…
Dopo il passaggio della tromba… incontrai mio fratello… il cui viso era ricoperto… di pittura grigia. Il dorso della sua camicia… a brandelli… scopriva una larga lesione che somigliava ad un colpo di sole… Vidi una quantità di persone completamente sfigurate… I loro visi… orrendamente gonfiati… appena si potevano distinguere gli uomini dalle donne… occhi… ridotti allo stato di fessure… labbra… colpite da forte infiammazione… Tutto ciò che era umano era stato cancellato».
Ecco quale può essere il retroterra di un’opera come questa e come si giustifica un tratto espressionistico così crudo, violentemente drammatico, in cui si alternano lampi di luce e ombre inquietanti su uno sfondo indistinto tutt’altro che naturalistico, tutt’altro che realistico, eppure così profondamente vero. Tanto più vero per la sua attualità: peri i segni con cui si ripresenta in un mondo in cui il potere, la politica, la diplomazia sembrano impazziti più che smarriti.
Naturalmente il retroterra di un artista non è fatto solo di questo tipo di esperienze, per quanto importanti e indispensabili possano essere, ma è fatto anche di esperienze artistiche: di conoscenza dell’arte, della sua storia, dei grandi maestri del passato, delle espressioni più significative dell’arte contemporanea, di artisti noti e meno noti, di artisti con cui si è in sintonia e con cui ci si confronta.
Insomma un retroterra che è costituito da quella trama di rapporti a cui si faceva riferimento poc'anzi.
In questa trama ci si influenza reciprocamente: si prende e si dà.
A questo proposito, bisogna preliminarmente sgombrare il campo da un equivoco che spesso ricorre e ha a che fare in particolare con due termini: originalità e imitazione.
Due termini che a volte sottendono un giudizio, una conclusione in gran parte fuorviante, e cioè: un artista per essere tale, per essere vero, deve essere assolutamente originale, il che significa che non deve imitare o, per dirla in maniera più diretta, non deve copiare.
È proprio così? Picasso, mi capita di citarlo spesso in merito, diceva: «I bravi artisti copiano, i geni rubano». Una frase che nella sua paradossalità, ha molto di vero. E non solo nel campo delle arti figurative, ma anche nella musica, nella letteratura, nella poesia e nella vita di ognuno di noi, che a pensarci bene non siamo molto diversi dalle scimmie se è vero, come sostengono alcuni psicologi, che il bambino incomincia a imitare già a 32 ore dalla nascita e continua a farlo per tutta la vita. Tant’è che attraverso l’imitazione impariamo a parlare, apprendiamo, entriamo in rapporto con gli altri e diventiamo esseri sociali.
Detto questo, non dobbiamo nasconderci che c’è anche un copiare pedissequo, una semplice riproduzione impersonale di un’opera così com’è, a volte fatta anche in maniera maldestra, che urta, diciamo così, la suscettibilità del nostro gusto.
Ma allora in che cosa l’imitazione dell’artista si differenzia dal resto?
Seguendo la provocazione di Picasso, potremmo dire brutalmente che è un rubare di nascosto, senza farsi vedere, senza farsi scoprire.
Utilizzando, invece, il linguaggio della psicologia, in particolare quello di Piaget, diremo che trasforma ciò che prende in “linguaggio interiore” e con quel linguaggio nella propria rappresentazione supera il modello, non perché diventi più bravo del maestro, ma perché si esprime con il suo linguaggio che costituisce la sua originalità che non è l’originalità assoluta.
I percorsi del “linguaggio interiore” sono percorsi carsici, imperscrutabili, e le soluzioni a cui arrivano non sempre ci permettono di capire da dove sono partite, cosa hanno “rubato”, perché a volte neanche gli artisti stessi sono coscienti del loro “furto”, in quanto può essere avvenuto in forme così subliminali che neanche loro stessi ne hanno contezza.
A volte le affinità, o ascendenze che siano, sono riconosciute espressamente, onestamente, dall’artista con un aperto omaggio ai propri maestri, come per esempio fa Ferruccio con i suoi Omaggio ad Alberto Burri e Omaggio a Osvaldo Licini.
Altre volte le corrispondenze sono talmente evidenti che non c’è bisogno di alcun riconoscimento per coglierle immediatamente.
Per avere un solo esempio, si avvicini la Giuditta che decapita Oloferne di Artemisia Gentileschi alla Giuditta e Oloferne di Caravaggio: le affinità sono lampanti non solo per il titolo che rinvia allo stesso soggetto, ma soprattutto per lo stile, in particolare per la luce, i colori, la rappresentazione truculenta del gesto, la posizione della braccia, le espressioni delle due Giuditte e dei due Oloferne.
Se invece prendiamo un’opera come Il ritratto di Silvana Cenni di Felice Casorati, forse, non ci viene immediatamente in mente Piero della Francesca a cui Casorati è stato giustamente avvicinato, e che sicuramente aveva studiato a fondo, e neanche, in particolare, ci viene da pensare all’immagine centrale del Polittico della misericordia del grande pittore aretino – o meglio di Borgo Sansepolcro – però se li avviciniamo notiamo delle affinità nell’apertura delle braccia, nelle pieghe del mantello dell’una e del drappo alle spalle dell’altra, nella rappresentazione dello spazio e soprattutto nell’espressione del volto di entrambe che riecheggiano le parole di Casorati: anime estatiche e ferme… sguardi lunghi… pensieri profondi e limpidi.
Questo accostamento, Casorati Piero della Francesca, non è per niente casuale, non lo è per me di sicuro, perché da quando sono entrato per la prima volta in quella quadreria di arte contemporanea che è casa Gini e che Ferruccio dovrebbe aprire almeno ogni tanto al pubblico, mi ha colpito in particolare un olio intitolato Sospensioni in fuga che mi ha fatto venire immediatamente in mente proprio Piero della Francesca.
Forse per la dimensione monumentale che l’opera esprime e fa immaginare o per l’impianto prospettico e per l’uso sapiente della luce, di cui Piero era maestro, che in Ferruccio contribuiscono a modellare le forme e a definire lo spazio o ancora per il chiaro scuro che dà un senso di mistero e di sospensione all’insieme, tutti elementi questi dell’opera di Ferruccio presenti già in Piero, sottolineati in particolare da Gombrich a proposito dell’opera intitolata Il sogno di Costantino, un affresco delle Storie della Vera Croce (Arezzo, Basilica di San Francesco, 1458-1466); i linguaggi naturalmente sono completamente diversi e segnano una distanza di quasi sei secoli, ma le affinità la riducono.
Sospensioni in fuga è un olio del secondo periodo, anni Ottanta-Novanta, quando Gini aveva raggiunto la piena maturità artistica, ma affinità con Piero compaiono già nel primo periodo, in particolare in un’opera, anche questa interessante oltre che bella, che è Annunciazione, un titolo, tra l’altro quanto mai significativo perché sembra annunciare appunto gli sviluppi successivi dell’arte di Ferruccio per l’essenzialità delle figure e per le teste dei personaggi che sembrano prefigurare le future sfere della produzione dell’artista.
Interessante è in particolare notare che questa Annunciazione è diversa dalle svariate annunciazioni presenti nella storia dell’arte, come quella per fare un solo esempio di Botticelli (Annunciazione del Cestello, 1489-90), annunciazioni quasi sempre con un angelo ossequiante e una Vergine in una posa esitante, quasi ritrosa, di umile spavento rispetto all’enormità del compito che le viene annunciato; in Ferruccio invece i due personaggi sembrano decisi, coscienti della responsabilità della funzione loro assegnata, ma anche pronti ad assolverla senza alcun timore. Una rappresentazione diversa da tutte le altre, si diceva, con qualche eccezione una delle quali è l’Annunciazione di Piero della Francesca (particolare delle Storie della Vera Croce).
Nell’Annunciazione di Ferruccio non ci sono solo affinità con Piero, volendo si può vedere anche un certo gusto picassiano relativo al cosiddetto “periodo blu”, soprattutto se all’Annunciazione si associa, sempre di Ferruccio, Nudo blu, così come per il “periodo rosa” si potrebbe richiamare Il grande Angelo.
Ma nell’Annunciazione di Ferruccio c’è dell’altro ancora. Si veda per esempio l’opera di Giacomo Manzù intitolata Papa Giovanni e il cardinale, colpisce non solo l’affinità delle posture, ma soprattutto la plasticità delle forme pittoriche di Ferruccio che si avvicinano a quelle scultoree di Manzù. E qui non può non ritornare il ricordo di Piero le cui figure dall’indiscusso rilievo scultoreo si collocano in un’aurea filiera che parte da Giotto e attraverso Masaccio arriva a Michelangelo.
A questo punto, verrebbe da chiedersi: ma Ferruccio quanto ha studiato Piero della Francesca? quanto si è esercitato sulle sue opere? quanto lo conosce insomma?
La cosa stupefacente è che non c’è mai stata una particolare attenzione di studio di Ferruccio nei confronti di Piero, però conosce a fondo, tanto che si potrebbe dire che se n’è quasi invaghito, Felice Casorati, suo nume tutelare, che a sua volta è un grande conoscitore di Piero della Francesca e a questo punto si coglie appieno l’accostamento iniziale Casorati-Piero della Francesca per spiegare l’accostamento Piero della Francesca-Ferruccio Gini.
Insomma le suggestioni di Piero sarebbero arrivate a Ferruccio, seguendo percorsi piuttosto carsici, attraverso Casorati.
Un’ultima osservazione importante a questo proposito: Ferruccio scherzosamente viene definito “l’artista delle palle” per la presenza ossessiva delle sfere nelle sue opere. Da dove vengono quelle sfere?
Uova sul cassettone e Uova e limoni sono due opere, tra altre analoghe, di Casorati e la cosiddetta Pala di Brera è di Piero della Francesca in cui compare, una delle prime volte – se non la prima volta nella storia dell’arte – in così forte e simbolica evidenza, un uovo.
L’uovo di Piero e le uova di Casorati insomma sembrano arrivare nelle opere di Ferruccio per lo più in forma di sfere, ma non solo, perché neanche le uova mancano. E sono significative alcune opere – anche queste del secondo periodo Anni Ottanta-Novanta – di Gini: il Grande uovo, il Grande uovo e sfera e Uovo e sfera astrale, opere in cui l’uovo sembra, da una parte, un omaggio a Casorati e dall’altra sembra segnare la necessità del distacco dal maestro fino a farsi “sfera astrale” e a ricongiungersi all’idea di “uovo cosmico”, idea che è alla base di tanti miti cosmogonici, miti cioè che cercano di spiegarsi la creazione del mondo e la stessa nascita dell’uomo, come avviene col mito greco di Leda e il cigno rappresentato da un’opera omonima di Leonardo in cui Castore e Polluce, i due dioscuri, simboli dei due poli della creazione, nascono da un uovo per essere alla fine dei loro giorni collocati, dove ancora si trovano, nella costellazione “astrale” dei gemelli.
Ma nelle opere di Ferruccio qual è il significato più proprio della sfera?
Considerato che la sua sfera deriva in qualche modo dall’uovo, una citazione di Picasso forse ci potrebbe aiutare a farci un’idea della risposta: “Quando uno inizia un ritratto e cerca per successive eliminazioni di trovare la forma pura... si finisce inevitabilmente con un uovo”.
In Ferruccio l’uovo diventa sfera e quindi la sfera diventa per lui la “forma pura” del ritratto, cioè metafora, simbolo, dell’essere umano.
Abbiamo già visto nell’Annunciazione come le teste dei personaggi siano stati risolti all’in circa in due sfere attraverso un iniziale processo di essenzializzazione, la stessa cosa avviene in un Autoritratto del 2003 di Wanda Guanella in cui l’ovale del viso è un uovo pressoché perfetto. L’artista c’è arrivata partendo da uno schizzo dal deciso tratto giacomettiano e passando attraverso l’evanescenza di un’opera del 2002, intitolata significativamente Wanda e la sua ombra. Un processo, questo di Wanda, di essenzializzazione o, come direbbe Picasso, di “successive eliminazioni”, che investe naturalmente altri soggetti umani e perfino divini come avviene, rispettivamente, in Fecondità e in Maria incinta, ritratto quest’ultimo che – se non per il tratto – per la postura e per quella fusione di umano e divino che fa dell’amore un’unica cifra, non può non ricordarci La madonna del parto ancora una volta di Piero della Francesca.
Linguaggi diversi con indubbie “affinità elettive” condivise con un terzo geniale artista che è Paolo De Stefani, tanto da costituire insieme tre archi che chiudono uno stesso “cerchio estetico”, e insieme, nella loro diversità, concorrono a circoscrivere un’area di comune sensibilità e di affini ascendenze.
A proposito di Wanda, in un lavoro ancora in corso di pubblicazione ho avuto modo di notare che le opere dell’artista nel loro insieme inscenano una “composta teatralità” (ravvisabile nel citato Autoritratto del 2003 come nella Madonna del parto di Piero per quella sorta si sipario aperto da due angeli) in cui si rappresenta un amore per la vita e per la propria terra segnato da una sottile malinconia e da una vaga inquietudine.
Ebbene questo genere di rappresentazione teatrale è evidente in molte opere di Ferruccio, in particolare in opere come Burrasca in cui le tendine bianche, come un sipario appunto, incorniciano una scena poco rassicurante solcata da minacciosi corvi neri. Ma vi è “teatro” ancora nella già citata Sospensioni in fuga in cui il sipario è richiamato dalla scansione graduale e prospettica delle pareti che potrebbero essere anche delle quinte teatrali, mentre le cinque malinconiche sfere fanno pensare, pirandellianamente, a personaggi in cerca d’autore.
Un’opera questa molto vicina, anche per la sua teatralità, ma soprattutto per la razionalità dello spazio di marca pierofrancescana, alla sensibilità artistica di Paolo De Stefani, a tante sue opere che trasudano un’instancabile ricerca di purezza geometrica, aurea, matematica, di assoluta essenzialità tanto da risolversi in una progressiva dissoluzione delle forme come in Battiti e ancor di più in Diastole per poi di nuovo riemergere, come un coup de théâtre, un colpo di scena teatrale, appunto, da un crinale di montagne, espresso, com’è nella sua grammatica, con un tratto di rigoroso astrattismo geometrico e ripresentarsi nella sequenza di immagini che costituiscono una sola opera esposta nella mostra di Piuro del 2016, Trascendenze – Sic transit Plurs, con cui la rappresentazione estetico-teatrale e più in generale l’arte del De Stefani raggiunge una delle sue vette più alte: un vero e proprio racconto mistico-metafisico della frana di Piuro del 1618, della sua storia e della cultura a cui rinvia; insomma, un vero e proprio site-specific, cioè opera pensata appositamente per un luogo, che meriterebbe per davvero la più alta considerazione di pubblico e di critica se solo questa fosse un po’ più attenta ai valori estetici e meno a quelli economici.
Valori questi ultimi, quelli del mercato, abborriti, non tanto in sé, ma in quanto assumono una funzione distorcente, mistificante, dai tre artisti che, per questo motivo, costituiscono un cerchio non solo estetico, ma anche etico, in cui oltre al gusto per la purezza dell’essenza, confluisce anche la dedizione alla ricerca e alla sperimentazione, fatta anche di sacrifici e sofferenza che richiamano quelle esistenziali, elevate nell’arte ad altezze universali con una particolare attenzione per la sofferenza di ognuno soprattutto per quella dei più fragili sostenuta da quel senso di solidarietà che dovrebbe essere lo spirito edificante di un’isola che non c’è.
E con l’isola arriviamo a un altro topos, a un altro luogo, a un’altra grande metafora della produzione artistica giniana, ma anche a un ulteriore infittirsi di quella trama di relazioni e di simboli che finora sono emersi solo in parte, con la consapevolezza che molti altri, con i loro significati profondi, sono destinati a svelarsi di volta in volta solo nell’interpretazione del visitatore che non potrà mai essere esaustiva come non lo potrebbe essere neanche quella dello stesso artista.
Un esempio, per intenderci sull’idea di complessità che l’interpretazione dei simboli presenta è fornito dal pavimento a scacchiera perlopiù in bianco e nero ricorrente nelle opere di Gini con una frequenza quasi pari a quella della sfera.
Ferruccio spiega questa presenza come un omaggio a un suo grande mecenate, o comunque sicuro estimatore, che è stato l’archistar Luigi Caccia Dominioni, scomparso meno di dieci anni fa, il quale appunto utilizzava spesso nei suoi progetti e nelle sue costruzioni questo tipo di pavimento che nei quadri di Ferruccio fanno pensare ancora al Casorati del Ritratto di Teresa Madinelli che a sua volta ci riporta ancora indietro nel tempo alla pittura fiamminga, come nella Miniatura di Rogier Van der Weyden, o a un’immagine più confacente all’essenzialità geometrica di Ferruccio quale è quella presente nella Tavola del Miracolo dell’Ostia profanata (1467-68) di Paolo Uccello che in fatto di prospettiva non è da meno di Piero della Francesca. È significativo il fatto che Paolo Uccello nello stesso 1467 dipinge un’opera, La pala del Corpus Domine, che era stata proposta in un primo momento a Piero della Francesca, questo per dire quanto sia fitta e carsica la trama dei rapporti e come un’immagine si evolva in fatto di stili e di significati.
Di qui la domanda: il pavimento di Ferruccio, al di là di quello che lui sostiene e alla luce di quanto è stato sottolineato, può essere liquidato come un semplice omaggio a Dominioni? O invece evoca altri reconditi significati?
Una delle tante altre cose che viene fuori dai lavori di Gini è una evidente dialettica tra interno ed esterno, tra chiuso e aperto, tra la ristrettezza della valle e l’ariosità delle vette, tra terra e cielo, tra l’isola e l’immensità del mare, tra la sfera e lo smisuratamente grande come in una sua grande tela che si potrebbe intitolare Sublime come quello matematico di Kant rappresentato dagli artisti romantici del tempo, in particolare da Caspar David Friedrich in Monaco in riva al mare.
In questa dialettica il pavimento a scacchi sembra assumere il ruolo di una sorta di termine medio, una prospettica fuga che va da una gelosa intimità della casa a un’apertura verso il mondo o se si vuole una fuga dalla sofferenza a lungo covata nella sfera verso la gioia di vivere, vivere ancora nonostante tutto, espressa quest’ultima da simboli della contemporaneità come i graffiti di Piazza writer e persino da pezzi di muri, Ruderi, che – per dirla con René Char, grande poeta francese – proprio per essere “felici relitti” dell’anima fanno parte del nostro presente.
Ma la vera cerniera della dialettica di Ferruccio Gini, uomo di terra e di mare, che tiene insieme tutto quello che si è detto, tutto quello che Ferruccio è, tutto ciò che la sua arte rappresenta, è dato dalla sua isola, che è insieme, come Ferruccio, terra e mare, un’isola che non c’è eppure c’è: è l’utopia o se si vuole il sogno, cioè quell’innocenza, per usare ancora un’espressione di Char, che non fa invecchiare; a me piace pensarla sbocciare, quell’isola, da una sfera che si apre per poi essere di nuovo nella sfera eternamente custodita ed eternamente inarrivabile.
Tutto questo, con l’inizio del nuovo millennio, viene espresso con un nuovo linguaggio che da un lato vira verso un astrattismo a tratti rarefatto a partire da ambienti boschivi reali, come La casa degli spiriti e La voce del silenzio o da intrecci di rami (Ramisferio), via via dissolti in un indistinto sfumato (Ramirefazione 1 e Ramirefazione 2) e dall’altro lato, invece, si ripropone con un deciso tratto geometrico in cui domina la forma della vela proposta in diverse soluzioni: Trasparenze blu e rosse, La vela rosa e Vele in rotta.
Nello stesso tempo il linguaggio si rinnova anche dal punto di vista tecnico, con nuove procedure e nuovi strumenti: Ferruccio lascia olio e pennelli per dipingere con la fotografia e con il computer, arrivando alle cosiddette “pittografie”, che continua a produrre tuttora: un termine, pittografie, dal sapore antico che coniuga pittura e fotografia con i sofisticati strumenti della modernità senza smarrire il senso più genuino del passato e quella tensione etica che da sempre attraversa la sua arte e la sua esistenza.
Ferruccio uomo di montagna, prestato al mare, ritorna alla montagna sulla navicella dell’arte in cerca anche qui di quell’isola che non c’è senza mai perdere la speranza di imbarcarvisi come nella sua solitaria interminabile Attesa.
Questo libretto e questo intervento non potevano pertanto non chiudersi con un’ulteriore immagine dell’isola data da una recentissima opera dell’artista in cui ancora una volta non si nascondono le difficoltà dell’esistenza simboleggiate dalle nuvole grigie, ma nello stesso tempo si apre alla speranza con uno scorcio luminoso, in alto a sinistra, e tre uccelli che non sono i corvi neri della Bufera, ma uccelli gioiosi richiamati da tre sfere, illuminate anch’esse, che sulla prospettiva di una scacchiera corrono verso l’isola che c’è.
L’opera ha assunto come titolo gli ultimi due versi di una poesia naturalmente dedicata all’arte di Ferruccio: L’isola
«È in quel lampo di luce nel cielo
da non lasciarlo in terra fuggire».
La poesia per intero che apre il volumetto:
L'enigma dell'Isola che non c'è
C'è, è lì! l'Isola che non c'è!
È questo il mistero suo vero - l'Utopia
che sfugge all'occhio distratto
cieco al vuoto nel pieno
È lì nell'assenza - in quell'arte -
racchiusa in un mondo di sfere
nella sfera che tutto racchiude
Lì nel dolore sordo insistente
della traccia via via sbiadita
nel silenzio del sentiero interrotto
È nella quiete della burrasca lontana
fosca non del tutto svanita
È in quel lampo di luce nel cielo
da non lasciarlo in terra fuggire